Diario di vetro
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Prefazione Circa un secolo fa comparve agli orecchi e soprattutto agli occhi del pubblico italiano, col titolo Mattina, una coppia di versi che fece scalpore: il M’illumino / d’immenso di Ungaretti. Un settenario spezzato in due: punto e basta. Vergato forse per un bisogno di più libera fantasia, ma certamente volontaristico, perché puntava ad annunziare un concetto dell’arte differente da quelli della tradizione. Stavamo, in breve, alle soglie dell’Ermetismo. Ma di lì ai nostri giorni il pericoloso che in quel duale s’annidava è detonato, trasformando l’idea del poetico in una moda, in un docile gusto del niente: indebite pretese di essenza e quintessenza, su cui la sociologia avrebbe potuto indagare; ed è comparsa invece la dottrina della semiosi illimitata che, insegnando come tutto sia soggettivo e non tolleri giudizi di valore, ha fatto il resto. Ora solo la verità non mi offende. Questa dichiarazione costituisce, ognuno lo vede, un gesto militante, che vuol dare inciampo alle misure ovvie dell’endecasillabo e della metrica convenzionale, per risolversi in un forte comunicato di poetica: com’era in Ungaretti, ma – a parer nostro – con profili di schiettezza e di attendibilità diversi, forse meno ‘spazianti’, ma più compromessi. Innanzitutto: a fronte dell’immenso ungarettiano è posta la verità, col suo diktat che insorge ad onta dei connessi problemi gnoseologici. Perché la “immensità”, col suo sublime, è avvertita – per dirla con parole dell’autrice – come un’idea perplessa e vaga, come un vocabolo disposto ad aprire anche al cattivo gusto dei vagabondaggi nell’immaginifico e nel vacuo (quel che è successo, purtroppo, con L’infinito di Leopardi). La verità come regola, dunque, che è al tempo stesso etica e conoscitiva, ed attraversa anche lessicalmente tutte le sezioni della raccolta: anche le più fresche d’inchiostro, nelle quali l’urgenza diaristica – tanto maggiore quanto più l’autrice combatte col non risolto e lo prospetta in fragilità e trasparenza come fosse vetro – sospinge nell’oltre, in terre madide di ragioni filosofiche e di venature psicanalitiche. Vedovi, l’un dell’altro, e ancora vivi. Siamo a fronte di una riflessione-constatazione-ammissione che è tanto pregna e stagliata, da inibire ogni tentativo di analisi del numero e del posto assegnato alle parole. L’endecasillabo – lo vede anche il più candido dei lettori – proprio non ne sopporta altre, né davanti né dopo, perché nel fatto individua una condizione che oltrepassa la privatezza e ci coinvolge tutti. A confronto, il duo di Mattina non varrebbe molto quando non lo riportassimo a un che di indiziale, di sofferto: quello – che potremmo cavare dall’intratesto – dell’uomo di pena, che solo fa di Ungaretti un poeta da amare. Tu ridi lusingato Realismo ‘facciale’ che dilata la “tristezza” ed unifica con una duplice e forzante similitudine i morfemi dell’immaginario; un immaginario dove il ‘naturale’ appare d’una limpidezza quasi sconcertante. È che pure in questo caso l’epopea rimane nei fatti, nella loro crudezza; e non senza calcolo il lemma ricompare in chiusa al penultimo verso: Non c’è più tempo per leggere tra le parole e i fatti… Così giunge sulla scena l’io dell’autrice, che rinunzia a distinguere, a interpretare, perché – abbiamo visto – solo dalla verità non si riconosce offeso. Ne potremmo dedurre che la sua coscienza, graziata di poesia, in virtù di questo dono esce dall’isolamento e intravede un porto sicuro. Le sta dentro, e poi le fa da bordone come sopravvivenza ideale, l’infanzia non dissolta, e non dissolvibile, dei volti che il potere della sua arte ha fotografato, stringendo in un tutto organico, con alterno guardare, la purezza immacolata e la sua catastrofe: bocche un tempo tenere di rosa / ora rosse di sangue / e fredde di marmo. E il fulcro sta fin da questo momento – come poi nel finale che s’è visto – nell’ora avverbiale, che è indotto per scavare un abisso: tra il presente di guerra e di morte, e il passato che fu splendido di innocenza e di sogni non più cancellabili. Un susseguirsi lento di monti accompagna il viaggio. Chi, dopo tempo, rivedendosi assorto in una carrozza ferroviaria, non ritrova se stesso in questo passeggero? Né dovrebbe esserci difficoltà a riconoscere, nel ‘naturale’ della situazione e nella cadenza lenta del verso, lo status d’ogni viaggiante che stia a guardare dal finestrino. Per non dire del realismo (finalmente magico) ravvisabile nella seconda parte della lirica, e segnatamente in quella sequenza che veicola – forse per la prima volta nei regni secolari della poesia – uno degli oggetti più comuni, l’ombrello; e non alla stregua d’un gradevole schizzo, ma adombrando un fatto triplice: la ‘tensione’ e il disinganno d’una giovane donna; la usata, amante compagnia delle cose; e da ultimo, variatio montaliana, la loro presenza tutelare: Così giovane donna vai lasciando lenti E qui, per non dicer poco, tralascerò di affrontare il tema della natura e del paesaggio – luoghi, flora (la buganvillea, il nespolo, i pini, l’edera, il salice, il trifoglio), fauna (le api, i bombi, le colombe, le rondini, i gabbiani), tempi – così costante nel Diario, e sempre di resa ‘unica’, autografica, e ogni volta sottratti con una sfida continua ai loro stereotipi; e solo mi spingerei a porre una domanda: quali poeti – a parte il Tasso della morte di Clorinda – si siano avvicinati più di Barbara Ludovici (si parva licet) al “pianto delle cose” di Virgilio, alle sue memorabili lacrimae rerum. Elementi che non sono sfuggiti – crediamo – a quei giudici che hanno assegnato alla lirica Voce tradita, di cui tali versi fanno parte, il Primo premio nazionale in un Concorso ecologico; e ci sembra bello accommiatarci riportando la motivazione della giuria, anche per i seri spunti interpretativi che fornisce: «In uno straordinario intreccio di cadenze liriche e drammatiche, la poesia Voce tradita affronta una delle tematiche letterarie più antiche e più rischiose, quella del ‘viaggio’ attraverso luoghi e stagioni; e al fuoco d’un vissuto arduo, ma redento in una incontestabile originalità e felicità di raffigurazioni e di linguaggio, brucia ogni retorica descrittiva e soggettivistica, ponendo a centro e fulcro della rappresentazione la natura e la donna, e accomunandole in un binomio di dolore e di speranze tradite. Così Barbara Ludovici realizza una delle condanne più commosse e più attendibili delle mutilazioni che il nostro tempo riserva alla loro meravigliosa identità». Mario Aversano |
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