Sulle ali del sogno
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Prefazione Il sogno in Villucci è metafora poetica della visione del mondo. Non si tratta di onirismo puro e schietto, e pertanto non si manifesta uno stato alterato della coscienza in cui si sviluppi una produzione fantastica di immagini irrazionali con conseguente perdita di ogni legame con la realtà. Credo sia importante mettere a fuoco l’aspetto fondamentale per la corretta comprensione della poetica di Antonio Marcello Villucci: il “sogno” in Villucci è sostanzialmente il linguaggio stesso della poesia. Un linguaggio che ha una valenza bipolare, in quanto è espressione denotativa della realtà circostante, ma è anche rielaborazione astratta e storiografica delle interpretazioni profonde e metafisiche del mondo. Ne deriva che in un simile linguaggio poetico convivono con pari diritto di cittadinanza l’umano e il divino. L’umanità appare con il suo carico di emozioni, illuminata dall’amore e oscurata dalla morte. La divinità si appalesa con la sua attesa di eternità e di trionfo conclusivo del bene sul male. La coabitazione, filologicamente, si realizza con una cogestione del messaggio, che diviene un amalgama unico o più esattamente una miscela inseparabile di caducità e di eternità. C’è questo caffelatte nella tazza di Villucci, un miscuglio tenacemente coeso: il sacro e il profano divengono espressione unica della cultura poetica, cioè la lingua unitaria con cui il poeta si esprime. Lo stesso tipo di linguaggio è messo in campo anche nelle precedenti opere di poesia che già abbiamo letto negli anni passati: precisamente, Parole d’azzurro, Le parole non dette e ora Sulle ali del sogno. Sarebbe una forzatura includere Villucci negli autori specificamente religiosi, perché in lui non c’è un’interpretazione ortodossa della poesia in termini danteschi o blakeniani come scala d’elevazione che conduce a Dio. Per Villucci la poesia non rappresenta il viaggio di conoscenza superiore della divinità. In realtà, si tratta di una illustrazione storiografica della divinità, motivo per cui il divino emerge nei modi e nelle espressioni con cui l’uomo ne parla nei luoghi e nei tempi esaminati dal poeta. Se vogliamo, è una sapienza “relata”, ricapitolata, riferita ai modi e alle espressioni con cui l’umanità ha avvertito e ha testimoniato la presenza dell’ultraterreno presso di sé. Per scelta sociologica, inoltre, il linguaggio di Villucci è, dantescamente, un linguaggio dell’immediatezza, cioè della comunicazione, nel senso della condivisione e della comunione con tutti i destinatari del messaggio, senza l’introduzione degli specifici filtri d’erudizione che sarebbero capaci di escludere dal convivio della conoscenza i fruitori non avvezzi a frequentare le vette del sapere. La religiosità, se di essa proprio si vuole parlare, in Villucci è rappresentata come uno degli elementi fondamentali della cultura e delle abitudini degli uomini che popolano le sue poesie. Si tratta di un’umanità con abitudini sostanzialmente contadine, legata alla coltivazione della terra, al succedere delle stagioni, quest’ultime marcate da feste e ricorrenze, per lo più di contenuto religioso. Ma accanto alla rappresentazione, sociale e storiografica della religione, con pari fondamento, sviluppo e dignità c’è la rappresentazione del mondo emotivo dei personaggi che capolinano nei versi, i quali sono nel contempo operosi e sognatori. E le loro emozioni sono di stampo pascoliano, alimentate dall’alacrità dell’economia familiare, corroborate dal nido e raccolte intorno al desco, puntellate e contornate dai riti, dalle abitudini, dai gesti sicuri e familiari della tradizione, che in qualche modo è la vera dispensatrice delle poche sicurezze umane possibili all’interno di un’esistenza sempre esposta all’azzardo della fortuna e al capriccio degli eventi. Sandro Gros-Pietro |
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