Il rotolo
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IL POETA-PASTORE Dopo le Asolane e altre raccolte del 1966, Il lungo esercizio del 1971, Un certo sentimento del 1983, Poesia dentro e oltre i limiti del 1999, ecco l’opera postuma di Antonio Faccio, morto a Bassano il 16 marzo 2013, Il Rotolo, liriche raccolte con sacra devozione ad memoriam dalla moglie Luisa e dai figli Mariasilvia, Umberto ed Elisa. Il poeta insiste sulla sua esperienza giovanile di poeta-pastore che custodiva le pecore nel suo paese di nascita berico Apio-Lapio, un paese, come diceva nell’ultima raccolta del 1999, “che capisco; con un muro in un angolo / roso come quello della mia casa, qualche orto. / Una campana nel vespero, una fonte / oggi onorata, dove non mancherà l’acqua, / non occorre più la borraccia. / È un paese scavato certo nell’anima. / L’aria è secca, aspra, una rosa è di rovo. / Un dolore noto e anche ignoto che provo”: sono con la mia pecora nella collina Un paese “scavato nell’anima” che rimane come emblema e simbolo della sua solitudine, di ragazzo deriso dai suoi compagni che lancia un sasso contro la vetrata della scuola (si legga Sempre troppo e mai abbastanza), della sua ostinata caparbietà, della sua sostanziale diversità dagli altri che lo spingeva ad estraniarsi dal mondo e chiudersi nel suo “mi confido e mi confino” (espressione ripresa dal filosofo Deridda), nel suo mondo, dove solo si sentiva “autentico e quasi libero”, sempre solo “come un ebreo o un mito”, sempre “in diaspora”: Non li ho abbandonati I temi sono essenzialmente due: Dio e la morte. Tutta la poesia di Faccio è un colloquio e un rapporto con Dio: che è rapporto – come scrive Giorgio Bárberi Squarotti – quanto mai problematico, inquieto, mai consolatorio o pacificatorio, sempre, anzi, come mantenuto sull’orlo dello strappo, della separazione, dell’impossibilità, della rinuncia disperata e tragica. Ne nasce un discorso severo, solenne, estremamente prosciugato, che conosce ben pochi abbandoni e indugi. Ciò che si avverte è piuttosto il distacco fra cielo e terra, fra vita qui e ora e attesa ovvero speranza o fede, in una contrapposizione che fa muovere in un’aura di sospensione e di angoscia le figure di questa poesia, ma che dà anche ai luoghi una profondità metafisica, e li trasfigura in stazioni di un itinerario di affanno, pena, tormento, difficile tranquillità, combattuta ipotesi di sapienza totale e definitiva della vita. C’è una luce ferma e spoglia che illumina le parole e le squadra duramente, le fa cadere nel verso come pietre, e subito nell’anima di chi le legge. Il dialogo è sempre con l’Altro, anche quando sembra un’indagine o un’analisi dell’anima, dei sussulti del cuore, delle pene dell’esistenza. La presenza di Dio è continua, quasi ossessiva, anche se il suo nome è così raramente pronunciato: si direbbe, anzi, che il nome divino è piuttosto cercato, nelle pieghe del linguaggio delle cose e dell’anima, perché è ben noto che, quando sia pronunciato quale è, tutto diventerebbe chiaro; e invece il cammino del protagonista della poesia di Faccio compie un itinerario nell’enigma e nel mistero: La morte vorrei invece pura, Il poeta vive come in un “sepolcro” in attesa del Grande Giudizio “che io non temo troppo / perché anche Dio è imputato”: ma forse non ci sarà nulla Il concetto di nous richiama Anassagora o Plotino, ma il poeta chiama in causa altri filosofi come Pascal e Spinoza per dire che “tutto inizia e ritorna” e “tutto è grazia”. Su tutto aleggia una grande speranza che emerge dalla pena, dal silenzio e dalla solitudine: Io ascolto dal mio nido. Gianni Giolo
Eventi collegati a Il rotolo
"Il rotolo" di Antonio Faccio
Museo Civico Bassano del Grappa, il 28.11.2015alle ore 17.00, Piazza Garibaldi, 24, Bassano del Grappa
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